lunedì 29 aprile 2013

Il cavaliere dagli occhi a mandorla

Miei poveri lettori, adesso per pareggiare i conti e non concentrarmi sempre sul genere femminile, ho deciso di sottoporre alla vostra attenzione un’altra singolare figura tipicamente giapponese.
Passerò dalla maestra delle arti al destreggiatore di armi, dal kimono all’armatura, dal ventaglio alla katana (la spada giapponese per antonomasia)… avete capito di chi vi parlerò? Del samurai.
Il samurai (dal verbo saburau, lett. “colui che serve”) è (anzi “era” visto che oggi il termine è impiegato per indicare la nobiltà guerriera) un militare, un guerriero fedele al servizio di un signore (il daimyo), in pratica il pari di un vassallo feudale, naturalmente con il suo codice di comportamento che prende il nome di Bushido (lett. “la via del guerriero”).
Le regole del Bushido ci sono state tramandate sotto forma di aforismi (precisamente numerati!) nell’Hagakure, un’opera letteraria di amoto Tsunetomo (che naturalmente ho letto per tentare di essere il più precisa possibile).
 Il Bushido (sinteticamente) consiste in 7 principi:
Gi: Onestà e Giustizia
Yu: Eroico Coraggio
Jin: Compassione
Rei: Gentile Cortesia
Shin: Completa Sincerità
Meiyo: Onore
Chugi: Dovere e Lealtà
Un cavaliere di Artù dagli occhi a mandola! Pronto a morire per il proprio padrone.
“Questo è l’obiettivo, non la vittoria o la fama” recita uno dei punti del Bushido.
Essere un samurai è principalmente una vocazione ma questo non basta! Il  buddismo zen rendeva lo spirito del samurai forte come la sua spada (la katana dove si crede che risieda l’anima del samurai); e per questo si allenava per anni, in quanto le sue tecniche insegnavano ad avere la totale padronanza delle proprie emozioni (dote fondamentale per un samurai sempre di fronte alla morte) e sempre grazie allo zen il samurai imparava la magnanimità verso i deboli, i vinti, si esercitava nello shodo (arte della calligrafia), o semplicemente ritirarsi a bere del tè (il cha no yu).
Un samurai che beve del tè sembra quasi un controsenso ma in realtà la bevanda aiutava a purificare tutti i sensi, compreso “l’organo mentale”, sia prima che dopo una battaglia in quanto nelle arti marziali si vince con la mente.
Tutto ciò non lo porta alla presunzione della sua superiorità anzi “la scoperta della propria insopprimibile imperfezione è la mèta del cammino spirituale” e soprattutto “la capacità di giudizio è una meta del guerriero ma bisogna mettersi in guardia degli eccessi dell’uso di questa facoltà”.
Per queste ragioni, chi si ritiene completo ha voltato le spalle alla Via.
Per completare il quadro e ricollegarmi alla mia insana passione per i sakura, vi rivelerò la connessione esistente tra questi forzuti guerrieri e i delicati fiori.
Il fiore di ciliegio è il simbolo del bushido poiché il samurai possiede le medesime caratteristiche: semplicità, purezza, delicatezza e la disposizione a cadere con naturalezza. Come il fiore può cadere con un semplice colpo di vento così il samurai può essere abbattuto per un colpo di spada.
Infatti vi è il detto "hana wa sakuragi, hito wa bushi" = “ tra i fiori il ciliegio, tra gli uomini il guerriero” cioè come il fiore del ciliegio è il migliore tra i fiori, così, il guerriero è il migliore tra gli uomini.

Piera-chan   





martedì 23 aprile 2013

Ukiyo-e: immagini dal mondo fluttuante verso l’arte occidentale

Nell’epoca della restaurazione Meji del 1868, il Giappone si aprì al mondo occidentale, con importazioni ed esportazioni soprattutto da e verso la Germania, paese privilegiato per i commerci con l’Oriente. Tra le varie merci esportate spiccano prodotti di valore  artistico quali le stampe su blocchi di legno della scuola Ukiyo-e, corrente artistica giapponese del periodo Edo  (XVII-XX  sec).                                       
Ukiyo-e letteralmente significa immagini dal mondo fluttuante, ovvero la rappresentazione del mondo che cambia e per la prima volta nell’iconografia dell’arte giapponese si rappresenta la realtà urbana delle grandi città come Edo (l’ attuale Tokyo), fatta di cortigiane (le geishe), lottatori di sumo e attori famosi ritratti mentre recitavano.
Oltre alla vita mondana, questo tipo di corrente iniziò a ritrarre anche i paesaggi e la natura tipica giapponese grazie ad artisti quali Hokusai (nome d’arte che significa "studio della stella polare") e Hiroshige.

Hokusai 

Ritratto di Hiroshige

(1) The great wave

Il primo è famoso per la sua “The great wave” (1),opera  che rappresenta un’onda che travolge la barca di poveri pescatori (simbolo della fragilità umana di fronte alla forza della natura) e per una serie di ritratti del monte Fuji(2).               
(2) Ritratto del monte Fuji
    
                                                                                                                                                           Il secondo è famoso soprattutto per "The Bridge" (3), opera che è stata imitata da Van Gogh per poterne carpire le tecniche di esecuzione. Entrambi, grazie all’importazione delle loro stampe in Occidente, hanno influenzato, oltre al già citato Van Gogh, Monet, Gauguin, Degas e tutta l’Art noveau.
(3) The bridge: confronto tra Van Gogh e Hiroshige
 Rosa-chan


lunedì 22 aprile 2013

Il cibo è un fumetto: quando il kawaii incontra la cucina giapponese

"Kawaizza ciò che mangi" potrebbe essere il motto ufficiale dell’industria e del commercio alimentare nel Paese del Sol Levante. Non importa se si tratta di trachee di pollo, intestini suini, uova di salmone o grosse rape bianche sottaceto, qualsiasi alimento (fritto, bollito, grigliato o addirittura servito crudo) verrà venduto in negozi, ristoranti, bancarelle e carretti ambulanti decorati da buffe immagini che umanizzano il pollo, la rapa o il maiale in questione.

“Kawaii” è una parola non parola. Non è un aggettivo né un sostantivo e quasi un’onomatopea che come uno strano segnale acustico, viene diffuso dalle giovani ragazze giapponesi ogni qualvolta entrino in contatto con qualcosa che sia carino, dolce e tenero. Cosa che accade spesso nel momento in cui stiamo parlando di un Paese che “kawaizza” persino le transenne dei lavori in corso, costruendole a forma di papero con tanto di becco e occhietti dolci; Paese in cui sulle porte dei vagoni della metropolitana è stato affidato ad un adesivo raffigurante un procione molto simile al caro Rascal, il compito di avvisarci di non infilare le dita tra le porte al momento della chiusura delle stesse.
Qui tutto è kawaii. Dall’etichetta dei funghi freschi venduti al supermercato fino ad Ebisu, uno dei sette Shichifukujin – le divinità della fortuna, mascotte dell’omonima birra.
Kawaii è persino il polpo gonfiabile presente sull’uscio di qualsiasi bottega di takoyaki  presente ad Osaka. Ristoranti, bancarelle e piccoli carretti ambulanti sono dotati della caratteristica piastra per cuocere i takoyaki, cioè delle frittelle tonde a base di uova e tentacoli di polpo, servite cosparse di salsa di soya e aceto e una dose abbondante di maionese. Il costo si aggira sui 50/70 Yen a “palla” (meno di 1 €). Ad ogni ora del giorno e della notte, per le strade di Osaka, è possibile trovare ragazzi e ragazze, da soli o in gruppo, accovacciati in un angolo o appoggiati ad un muro, con in mano una confezione di polistirolo a gustarsi la propria razione quotidiana di takoyaki, sotto l’insegna involontariamente crudele di un polpo “kawaii” che ride.  
Takoyaki

Tra un takoyaki ed un altro, dall’ora di pranzo in poi, le strade vengono bombardate da ogni direzione, dall’odore pungente del brodo (di carne o di tonno essiccato e alga) dei venditori di soba, ramen e udon. Con una cifra che si aggura dai 500 ai 1.000 Yen (5/10 €) è possibile acquistare una “scodella” di pasta lunga affogati in qualche litro di brodo con l’aggiunta di pesce o carne, alghe e verdure.
Lo “street food” in Giappone è decisamente settoriale e specializzato. È raro trovare un ristorante o una bancarella ambulante che serva dal takoyaki, all’onomiaki (una frittella a base di cavolo cappuccio cotta su una piastra rovente) fino alla soba. Vi sono ristoratori che offrono solo sushi o solo tenpura. Passeggiare per le strade di Osaka infatti, all’ora di cena – e in qualsiasi altro momento, visto che non esiste un’ora di pranzo e un’ora di cena, in Giappone si mangia sempre a qualsiasi ora del giorno e della notte – vuol dire farsi schiacciare dall’infinita possibilità di scelta e farsi cogliere dall’impossibilità di scartare un’ipotesi a favore di un’altra senza ripensamenti. Come se quel pollo sorridente, quel calamaro coi baffi e quel tonno con gli occhi dolci, presenti sulle insegne t’invitassero, con una certa ironia blasfema, a cibarti del loro corpo.
Il Giappone, buddhista, scintoista e un po’ cristiano a seconda delle lune e delle maree, senza una religione precisa, ma dotato di un’incredibile e profonda spiritualità, in cui generalmente non si ruba sia per senso civico, ma anche perché c’è la convinzione che gli oggetti posseggano un parte dell’anima della persona a cui appartengono. Quegli stessi oggetti che, nel Paese del consumismo sfrenato, se vengono buttati, abbandonati o dimenticati quando ancora potevano risultare utili, si possono trasformare in un yōkai, una creatura mitologica che non è né buon né cattiva, ma semmai dispettosa come un bambino a cui non si dedicano le giuste attenzioni.
Perciò ecco che, forse, acquisiscono un senso quelle graziose faccine che decorano gli acini d’uva sulla confezione di caramelle e persino le smorfie delle patate dolci dell’Hokkaido che fanno da farcia dei paninetti dai mille gusti in vendita in qualsiasi kombini (mini-market aperti 24 ore su 24). Lontani anni luce dal cattivo gusto nostrano che ci ha abituato a ridere di un "fu maiale", mutato in porchetta, a cui il rivenditore ha infilato occhiali da sole sul grugno e una sigaretta in bocca, in occasione delle sagre di paese o fuori dallo stadio, qui in Giappone la tendenza ad umanizzare ciò che si mangia potrebbe far sorridere persino l’animalista più oltranzista.

                                                                                                 Carmy-chan

venerdì 19 aprile 2013

Karaoke giapponese: let's sing!


Se siete dei maniaci di manga come me, vi sarà capitato di sicuro di incappare nel corso della lettura nel momento della “serata al karaoke”. In ogni manga che si rispetti, scolastico o non, c’è quello che per i giapponesi costituisce forse uno dei massimi divertimenti. Se avete prestato particolare attenzione avrete anche notato tre cose molto interessanti.
Innanzitutto il fatto che in Giappone esistono locali con stanze insonorizzate in cui sfogare le nostre frustrazioni canterine. Ciò vuol dire che le nostre mega-figuracce canore rimarranno limitate alle poche sfigatissime (o coraggiosissime a seconda dei punti di vista) persone che hanno deciso di accompagnarci. Personalmente mio fratello piangerebbe a calde lacrime di fronte alla presenza di locali del genere. Mi spingerebbe in una di queste stanze chiudendosi dietro la porta a chiave fino a quando la voglia di cantare non mi è passata!

Ma passiamo all’altra cosa molto interessante. In queste stanze in cui puoi dimenarti  come “una lavatrice al momento della centrifuga” mentre canti, senza vergognarti, vi sono degli appositi telefoni attraverso cui puoi fare tutte le ordinazioni che vuoi senza preoccuparti che quello in fila
dietro di te al momento della tua ordinazione pensi “ammazza, ma questa non magna da un mese!” Dite la verità, state iniziando davvero a sentirvi invidiosi dei giapponesi, VERO? Io ammetto che lo sono tantissimooooooo!
Veniamo al momento clou, cioè il momento in cui prendete in mano il microfono e decidete di tirare fuori il vostro sacro fuoco dell’arte. A questo punto sorge il dilemma. Come cavolo faccio a cantare una canzone in giapponese se il mio vocabolario giapponese si limita a quattro parole pietose peraltro imparate attraverso gli anime? Ebbene, non preoccupatevi miei cari amici cantori perché tra i tanti titoli presenti tra cui potete scegliere vi sono canzoni inglesi e perfino qualcuna italiana. Magari vi ritroverete a cantare “o sole mio” in Giappone dimenandovi come una lavatrice (quello è d’obbligo)!
 Passiamo alla terza cosa interessante (sempre che non vi siate fermati al passaggio sulla danza “lavatrice”. Vi capirei se fosse così, credetemi!). Mettiamo che vi rechiate in questi locali in compagnia di amici giapponesi e iniziate a intonare una canzone facendo sanguinare i timpani dei poveri malcapitati . Può accadere che il vostro cuore sia mosso a compassione per la sorte dei timpani di questi amici e abbiate la voglia e la bontà d’animo di smettere di cantare. Ebbene no! Non esiste. Su questo i giapponesi sono assolutamente intransigenti (e forse, diciamocelo, parecchio “masochisti” o “sadici” a seconda dei casi). Se avete iniziato a intonare una canzone il supplizio deve perpetrarsi fino alla fine della canzone.

Io penso che, scherzi a parte, anche da questa particolarità giapponese si possa trarre un insegnamento. Un insegnamento a continuare a “cantare nonostante tutto”.
Perché nella vita ci sarà sempre qualcuno che prova a farti “smettere di cantare”, che prova a demolirti. E’ inutile oltre che sbagliato non provarci nemmeno a intonare la nostra “canzone” per paura delle critiche altrui. Le chiavi per portare a termine la nostra “esibizione” sono l’ironia e il prendersi poco sul serio. I fischi ci saranno sempre e comunque, ma una buona risata è la cura per ogni cosa. Karaoke giapponese docet! In definitiva, dopo tutto questo discorso sul cantare mi è venuta una voglia matta di far sanguinare i timpani del mio povero fratello. Perché farlo aspettare? Alla prossima!
                                                                                                            
                                                                                                            Anto-chan

martedì 16 aprile 2013

Geisha per un giorno



Miei cari lettori, sono Piera-chan e per introdurre il mio articolo, vorrei partire da un fatto personale che vi farà capire la motivazione che mi ha spinto a scegliere questo argomento.
Quando ero piccola, dopo anni passati a travestirmi da principessa, da sailor (chi non ricorda il vestito alla marinara!), persino da patrizia romana (con tanto di bracciale a serpente sul braccio alla Cleopatra – c’era stata un po’ di confusione di popoli!), un anno a carnevale mia madre tornò con una vestaglia gialla con strani geroglifici dicendomi: “Quest’anno a Carnevale ti travestirai da giapponesina”.
Io all’epoca, del Giappone, sapevo solo ciò che avevo visto nei cartoni della mia infanzia e giapponesine con strane vestaglie le vedevo solo in particolari festività, di cui non sapevo molto.
Per non portarvela per le lunghe, alla fine indossai questa vestaglia (onestamente sembravo una balenotta considerato che non sono mai stata una figura longilinea, e per non illudere nessuno, non lo sono tuttora), con uno spillone in testa e uno strano ombrellino.
Non posterò la foto per mantenere ancora un briciolo di reputazione ma, considerato quello che so ora, vi posso assicurare che ero molto lontana da una geisha. Quindi se qualcuno per la prossima festa in maschera, desidera imitare le donne della Terra del Sol Levante, sarà meglio che segua questi consigli, cuore del mio articolo.
Innanzitutto vi è una differenza sostanziale tra una geisha e una maiko per quanto riguarda sia l’abbigliamento che il make-up.
Ma partiamo con ordine. Il make-up di una maiko è molto più pesante (sembra quasi un paradosso): viene steso sulla pelle del viso, collo, petto e nuca uno strato di cera oleosa per permettere al cerone (un fondotinta bianco) di aderire, conferendo loro quel caratteristico color latteo alla pelle, un po’ come le donne rinascimentali (com’è strano, pensando che noi oggi aspiriamo alla super-abbronzatura ricorrendo a creme scurenti o lampade!).
Ma molto più caratteristica è la nuca: per accentuare l’artificialità del trucco, come se il viso fosse coperto da una maschera, si lasciano due linee a “V” ritenute estremamente sensuali (1) o in occasioni importanti tre strisce (2).
(1) Linee a "V"
(2) Tre linee
Le sopracciglia vengono scurite con un carboncino, ed infine le labbra vengono dipinte solo nella parte centrale inferiore. Qualche anno dopo che si è divenute geishe, ci si può decorare interamente le labbra e alleggerire tutto il trucco fin quasi a farlo scomparire. Questo perché la geisha mostra negli anni la sua bellezza soprattutto interiore attraverso la padronanza delle arti.
 Questo video che ho trovato spiega (per chi non riesce a seguire la velocità delle parole in inglese, mostra solo) le procedure da dover seguire.


Anche il kimono - la strana vestaglia che mia mamma mi portò a casa, per intenderci – sottolinea la differenza tra la maiko e la geisha. Come nella maiko il trucco è più pesante, anche il kimono è più vivace nei colori, lunghe pieghe e il colletto rosso; le geishe, al contrario, indossa kimoni più sobri (il mio apparteneva a questa categoria!) e colletti bianchi.
A mantenere il kimono c’è l’obi, una cintura legata in forme strane con legacci e fermagli.
Una cosa che mi ha molto colpito è che per loro, è importante che s’indossi un kimono diverso ogni sera poiché altrimenti gli uomini ne sarebbero rimasti infastiditi nel vederle sempre con gli stessi abiti indosso.
Wow, che vista questi uomini orientali, visto che quelli occidentali, per poco si accorgono se le donne cambiano il taglio di capelli… saranno gli occhi a mandorla!
Infine per completare, i capelli vanno naturalmente alzati con pettinature particolari, acconciati con bacchette, fiori, fiocchi e nastri.
Ecco come ci si può diventare geishe, o se preferite maiko, per una sera.
Vi prometto, per chi si sarà annoiato di sentirmi parlare sempre di geishe, che dalla settimana prossima cambierò argomento. Grazie per la pazienza anzi Arigato.
Piera-chan      

lunedì 15 aprile 2013

Cha no yu: cerimonia del tè

Una delle più note forme espressive della cultura giapponese è il cha no yu (o chado). Il Cha no yu ( lett. “acqua calda per il tè”) o via de tè, è la cosidetta Cerimonia del tè che trova le sue radici nello zen, ed è considerata una delle arti tradizionali per eccellenza del Giappone. Due sono le qualità qui coltivate:
  • Bancha: tè verde giapponese, raccolto in piena estate e costituito da foglie grandi dall’aroma inconfondibile, piuttosto fresco e dal sapore amarognolo.
  • Gyokuro: tè verde giapponese, considerato uno dei migliori al mondo. A partire da tre settimane prima della raccolta, le piante vengono tenute all’ombra sotto grandi teli sostenuti da pali di bambù.
(1) 
Questo procedimento conferisce all’infuso il caratteristico colore verde brillante e il sapore leggermente dolce, tanto da farne il tè più pregiato e quindi delle grandi occasioni, che i giapponesi bevono non più di una o due volte all’anno, gustandolo in tazze piccolissime come fosse un liquore.
La Cerimonia del tè si svolge secondo stili diversi e in forme diverse. A seconda delle stagioni cambia la collocazione del bollitore (kama): in autunno e inverno, posto in una buca di forma quadrata, ricavata in una parte del pavimento chiamato tatami (1), mentre primavera ed estate in un braciere (furo) appoggiato sul tatami (2).
(2)
La forma più complessa e lunga (chaij) consiste in un pasto in stile Kaiseki, nel servizio di tè denso (koicha) e in quello di tè leggero (usucha). In tutti i casi si usa, in varie quantità, il matcha, tè verde polverizzato, che viene mescolato all’acqua calda con l’apposito frollino di bambù (chasen).
Quindi la bevanda che ne risulta non è un’infusione ma una vera sospensione che provoca un effetto notevolmente eccitante. Infatti veniva utilizzata, e ancora lo è, dai monaci zen per rimanere svegli durante le preghiere. 
Il tè leggero usucha, a seguito dello sbattimento dell’acqua col frullino durante la preparazione, si ricopre  di una sottile schiuma di una tonalità particolarmente piacevole e con un’intonazione perfetta coi colori della tazza.


Oggi la stanza del tè è anche luogo mentale, spogliata da ogni possibile orpello con pareti grezze e praticamente priva di alcun contenuto che non fosse di pensiero. I personaggi che si muovono in essa sembrano usciti temporaneamente dal mondo e dai suoi affanni per contemplare brevemente il vuoto. Nella stanza tutti entrano disarmati e tutti si devono inginocchiare e “subire” le stesse regole. 
La cerimonia del tè è qualcosa che va molto al di là della semplice preparazione di una bevanda. E’ forse l’espressione più pura dell’estetica zen, tanto che un adagio giapponese dice: “cha zen ichimi” cioè “tè e zen un unico sapore”
Anche il mondo cinematografico ha reso omaggio aquesta importante tradizione. Uno dei film più interessanti sull’argomento è “Morte di un maestro del tè” (1989), Leone d’argento alla Mostra del Cinema di Venezia, del regista Kei Kumai. Il film rende in modo perfetto l’atmosfera del mondo del tè e narra la vicenda del maestro Rikyu e le problematiche abbastanza misteriose che lo condussero al suicidio nel 1591.

La Cerimonia del Tè è fondata sul principio della “via” (do) cioè su un cammino interiore da percorrere per giungere all’illuminazione. Questa cerimonia non attinge solo a credenze religiose o verità assolute, ma è la conquista e l’eserecizio di una pratica per conoscere se stessi e guardare le cose in modo nuovo. In una parola, riscoprire la qualità umana per eccellenza: la serenità interiore, una sorta di leitmotiv per vivere meglio non solo con se stessi, ma anche con gli altri.
                                                                                                                                      Carmy-chan