lunedì 13 maggio 2013

Il dolore secondo Murakami-sensei


Oggi, lettori miei, potrebbe uscirne un articolo serio perché l’argomento che voglio trattare richiede la massima serietà. Ok, vi do il tempo di rialzarvi e rimettervi  seduti sulla sedia da cui sarete sicuramente caduti dopo questa mia affermazione e vi introduco l’argomento di oggi. E’ mia intenzione parlare oggi del dolore, di come in generale i giapponesi lo affrontino e di come è trattato nelle pagine di uno degli scrittori più amati dai giapponesi, Haruki Murakami.
Ovviamente il mio sarà un discorso di carattere generale e per forza di cose superficiale come tutti i discorsi fatti su un intero popolo senza tener conto degli individui singoli. Quando si fanno generalizzazioni inevitabilmente si trascurano delle cose ma purtroppo senza generalizzazioni in questo mondo non si potrebbe parlare di niente perché diventerebbe tutto estremamente complicato e impossibile da trattare. Fatta questa premessa direi che è possibile iniziare.
Fondamentalmente i giapponesi di fronte a qualsiasi dolore cercano, più di molti altri popoli, di mostrarsi forti. Fanno della dignità e della compostezza virtù imprescindibili. Ciò è determinato dalla loro cultura sempre tesa a perseguire il bene comune. Ciascuno ha paura col proprio dolore di affardellare l’altro. Il dolore dell’altro merita rispetto quanto e più del nostro. Spesso questo atteggiamento potrebbe far pensare (del tutto erroneamente) che essi siano insensibili o freddi. Niente di più sbagliato. I giapponesi soffrono come qualsiasi altro popolo. Il dolore è universale e chi si mostra forte merita più compassione di chi urla a squarciagola e si strappa i capelli. Questo atteggiamento di fronte al dolore è determinato da una consapevolezza che da sempre accompagna i giapponesi più di ogni altro popolo: la coscienza della precarietà dell’esistenza umana, del transitorio (il cosiddetto “mondo che fluttua”). Quella che gli altri potrebbero concepire come rassegnazione di fronte al dolore non è altro che la profonda consapevolezza che niente è eterno, che niente è stabile, che tutto passa. Quante volte in un film di Ozu (uno dei massimi registi giapponesi su cui la nostra Rosa-chan ha scritto un mirabile articolo) si è visto chiaramente questo atteggiamento. Pensiamo ad esempio alla nonnina, in Viaggio a Tokyo  che guarda il nipote e si chiede  se lo vedrà crescere. 
La cosa che personalmente mi ha fatto piangere a fontana è il fatto che di fronte a un pensiero così triste la nonnina mostra un sorriso coraggioso che  vale da solo un intero discorso: "Vorrei essere lì con te quando sarai cresciuto, vederti innamorato, sposato, realizzato. Ma forse io non ci sarò più. Ne sono cosciente. E allora dovrai essere felice anche senza di me". E’ una sensibilità quella nipponica fatta di sguardi, sorrisi nascosti, parole non dette, facilmente fraintendibile. E io ne sono realmente affascinata, dico sul serio, ma credo, sulla concezione del dolore, di essere nonostante tutto irrimediabilmente “occidentale”. Tenterò di spiegare il mio punto di vista, come da me anticipato, attraverso le parole di Haruki Murakami, attualmente il mio scrittore preferito. Io penso che (fatta eccezione per alcuni contesti e situazioni) sia fondamentalmente sbagliato  voler trattenere le proprie emozioni e  mostrarsi forte ad ogni costo. Sia sbagliato per sé e per gli altri, in particolare per quelli che ci vogliono bene. Sia sbagliato perché non siamo macchine ma esseri umani fatti di carne e sangue e perché il mostrarsi sempre forte ci porta inevitabilmente a pretendere lo stesso atteggiamento dagli altri, a diventare insensibili nei confronti degli altri. Continuamente tesi a frustrare le nostre emozioni iniziamo a provare invidia per chi invece le lascia fluire liberamente. E’ quello che succede ad esempio a una delle protagoniste di “La ragazza dello Sputnik” di Murakami che dice: 

"Il fatto di rafforzarsi in sé non è una cattiva cosa, naturalmente. Ma a pensarci adesso, ero così abituata al fatto di essere forte che non tentavo di capire le persone più deboli. Troppo abituata a essere sana, non cercavo di comprendere i mali degli altri. Quando vedevo persone che, in seguito a certi problemi, entravano in crisi e non riuscivano a reagire, pensavo che non si sforzassero abbastanza. Le persone che si lamentavano spesso, le consideravo semplicemente pigre. In quegli anni la mia visione della vita era solida e pratica ma mancava di apertura e di calore."

Murakami ci fa capire i pericoli e le conseguenze determinati da una costrizione all’aridità emotiva auto-imposta. Ci invita ad accettarci per quello che siamo, esseri umani con debolezze. Perché essere forti vuol dire accettare di essere fragili. Sembra un paradosso ma è quel che sembra volerci dire Murakami. Si pensi ad esempio a “il sorcio”, uno dei protagonisti di “nel segno della pecora”. Quest’ultimo scappa, si allontana dai suoi amici e dalle persone più care perché ha paura di mostrare la sua debolezza umana. Alla fine di un lungo viaggio però, quando gli è concessa finalmente la possibilità di liberarsi di questa debolezza umana (a costo di eliminare tutti i suoi ricordi) a favore di una perfezione “non umana” lui sceglie la propria debolezza di essere umano rispondendo all’amico che gli aveva chiesto il perché di questa scelta così : 

"Preferivo la mia debolezza. La mia tristezza e la mia capacità di soffrire. La luce dell'estate,l'odore del vento,il verso delle cicale. Sono queste le cose che mi piacciono,non ci posso fare niente".

In definitiva non c’è un modo giusto o sbagliato di affrontare il dolore. E’ qualcosa di così intimo e personale che è impensabile fornire dei modelli di comportamento validi per tutte le persone. Noi tutti dobbiamo trovare il nostro personale equilibrio ricordandoci di rispettare, nei limiti del possibile, il dolore nostro e degli altri. E ora metto fine al vostro “dolore” per aver letto fino alla fine e vi saluto! Alla prossima!
                                                                                                    Anto-chan

1 commento:

  1. Un post decisamente stupendo. Non saprei cos'altro aggiungere.
    Hai ragione su tutti i fronti in fine, sia tu che Murakami (che, tra l'altro, da come lo descrivi, mi hai fatta talmente incuriosire che il prima possibile mi ritroverò in libreria a comprare uno dei suoi libri!)Non esiste un modo giusto o sbagliato per affrontare il dolore: ognuno lo affronta con i propri mezzi e le proprie possibilità attraverso le esperienze che l'individuo ha vissuto.
    In definitiva, un post assolutamente STUPENDO!

    RispondiElimina